Rigenerazione urbana
Attivare un territorio
di Chiara Tartagni – foto di Gianluca Gasperoni
Cosa significa davvero gestire la trasformazione di un territorio? Ne abbiamo parlato con Lara Bissi, Maria Cristina Garavelli e Cristina Bellini, cofondatrici di Officina Meme Architetti.
Parlateci di cosa significa per voi fare rigenerazione urbana.
La rigenerazione attiva un territorio dall’interno. Si tratta di una trasformazione innanzitutto culturale. Lavoriamo in questo ambito dal 2011 e abbiamo messo a punto un metodo che richiede competenze multidisciplinari: implica valutazione del territorio, analisi, ascolto della comunità. La rigenerazione dà anche l’opportunità di sviluppare particolarità con un’alta valenza pubblica. Attraverso la convergenza fra l’azione delle amministrazioni e quella dei privati, si rispettano qualità urbana, servizi, normativa e sostenibilità. È proprio in relazione alla comunità che si monitora l’impatto degli interventi, impostando gli indicatori con cui misurare la ricaduta sociale, economica, ambientale. L’obiettivo finale è una qualità della vita alta per tutti. È un modello di gestione in evoluzione, incrementale: consideriamo l’impatto dal breve al lungo termine, rendendo così il processo modificabile sulla base di nuove esigenze. In questo senso abbiamo testato con grande efficacia il riuso temporaneo di uno spazio, come attivatore e modello in scala 1:1 di trasformazione, in tempo reale. Una dinamica fluida, che dà alle persone i primi elementi per riappropriarsi di quello spazio. La nostra città è la nostra casa di sperimentazione costante, ma il metodo si applica a livello nazionale.
Cos’è per voi l’equilibrio fra conservazione e innovazione?
Non sempre si conserva tutto: si deve fare una scelta. La trasformazione è legittima, ma l’approccio è differenziato. I nostri lavori per Ravenna, dalla Darsena alla Rocca Brancaleone, sono emblematici di una dinamica: la disponibilità di una comunità a sperimentare e innovare è ciò che permette di trarre benessere comune da ambienti estremamente complessi. Nelle strutture in dismissione, in particolar modo quelle industriali, è importante capire quali segni enfatizzare. Perché si mantiene la suggestione della memoria e ti dà l’opportunità di avviare davvero una trasformazione innovativa ed efficace. È un modo di ascoltare.
Quando vi trovate di fronte ad architetture abbandonate, in quale modo le sentite “risuonare” dentro il vostro campo di sperimentazione?
È un ritmo viscerale, una vibrazione, ancora più intensa quando leggi i segni delle storie delle persone o sono le persone stesse a raccontarle. Ci si perde in un mondo di melodie, perché un luogo parla anche attraverso il vissuto e le memorie. Ogni architettura ha la propria storia e quindi un ritmo diverso. Il primo elemento di risonanza è nell’approccio a qualcosa che è lì da molto più tempo di te, che aveva una propria funzione e te la “racconta” anche se non è più in essere. I livelli di lettura sono tanti: i segni della viabilità, il verde di un vecchio giardino o della crescita spontanea, come entra l’aria, la differenza fra ombra e luce, perfino i motivi per cui la struttura non è più in uso, perché è importante capire cosa non è più necessario. Quindi ti rendi conto che quello spazio ti sta chiamando.
Come vi siete relazionate con la riqualificazione del Ristorante Brancaleone?
L’intento dell’amministrazione era riqualificare uno spazio verde pubblico in un contesto molto importante. Si è reso necessario un ragionamento sulla conservazione del bene storico e su come adeguarne e supportarne l’uso. Il luogo è un punto d’aggregazione culturale e ha bisogno di servizi di qualità, anche architettonica e di design, per valorizzare la componente culturale. Questo è stato il filo conduttore del nostro intervento. Abbiamo quindi lavorato su un volume pulito, sulle trasparenze e ancora di più sui riflessi legati alla restituzione del paesaggio in cui ci troviamo, senza mai prescindere dalla compatibilità con il bene storico.
Se doveste collegare la Rocca Brancaleone a un genere musicale, quali associazioni fareste?
Il progetto è nato sulla base di una valenza popolare e inclusiva, in una visione attuale. Questa azione ha mirato alla qualità, nella conservazione e nella progettazione di nuovi elementi. Le vibrazioni sono quelle della musica indie, del folk, di un’etichetta libera.
Cosa significa per voi la “soglia”?
È un passaggio-non passaggio, che fa nascere una domanda: sono da una parte o dall’altra? È sempre una scoperta, che ti dà la spinta ad agire. Per noi è anche un momento di riflessione, che ci permette di essere centrate sul valore che il nostro lavoro può dare alla comunità.
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