Suono e immagini

Openings n. 2 | 2021

Le porte della creatività

di Chiara Tartagni – foto di Gianluca Gasperoni

Openings è un viaggio in cui si esaltano a vicenda le immagini e la musica, composta da Luca Maria Baldini. Ravennate, sound designer e artista, Baldini ha una lunga esperienza nell’indagare il suono in contesti della più svariata natura.

Raccontaci il processo creativo che ti ha portatoa comporre la colonna sonora di Openings.
Per prima cosa ho fatto un brainstorming visualizzando dei fotogrammi. Nel mio processo creativo io parto quasi sempre dalle immagini. Ho scoperto che è il mio vincolo iniziale: possono essere foto, video, immagini teatrali, uno scorcio… Ora vivo a Milano e per me è stata una sorpresa vedere la Romagna nelle sue architetture, di cui alcune a me note e altre no. L’estetica dei luoghi, la loro essenza e i modi di parlare mi riguardavano nel profondo ed è stato interessante guardarli da un punto di vista esterno e professionale. Nella seconda fase, ho deciso su quali elementi basarmi. È stato delicato il confronto con la figura di Raoul Casadei, così iconica e legata a un forte immaginario. Ho scelto di omaggiarlo senza imitarlo, fin dal primo brano presente nel film. Ho preso un ukulele e ho ascoltato vari brani di liscio per entrare nella giusta dinamica. Il risultato è un liscio super rallentato che parte da un riff trascinato indietro, come se stretchassi il tempo. Ritrarre con uno sguardo contemporaneo l’Emilia-Romagna è stato importante per me. Volevo rappresentare l’oggi, raccontare una storia parallela senza limitarmi a sottolineare.

Quanto è stato importante il lavoro di squadra?
Molto. A questo proposito, vorrei parlare dell’importanza del rapporto con la montatrice Silvia Biagioni, che ha fatto davvero un grande lavoro. Abbiamo lavorato continuamente a stretto contatto: io creavo le musiche e le inviavo a lei, che a sua volta mi mandava del montato, così che insieme abbiamo costruito il flusso audiovisivo. Abbiamo trovato un buon ritmo, nell’armonia delle immagini e come team. Il tutto sempre interfacciandoci con Francesca Molteni, che ci guidava senza mai togliere libertà creativa, ma valorizzando gli aspetti più interessanti del nostro lavoro. Questa sinergia è stata sostanziale per la realizzazione del progetto.

Come ti sei relazionato con immagini di architettura?
Come l’immagine si lega al suono, l’architettura si lega allo spazio e di conseguenza al suono stesso.
Nei luoghi è il suono a definire la percezione delle immagini e degli spazi, attraverso rimbombo e riverbero. Le persone non vedenti si orientano proprio attraverso il suono. È una relazione che mi affascina molto e non si smette mai di indagare. Per me l’architettura è una magia e un’utopia, perché delinea tutto ciò che uno spazio dovrebbe essere: bello, armonioso, confortevole. Non è il mio linguaggio, ma è un approccio sensato per l’arte e la musica.

Hai realizzato la sonorizzazione di film muti. Cosa significa per te dare un suono a immagini che erano state pensate senza?
Prima di tutto si creano immagini col suono. Quello che si vede in muto non è quello che si vede col sonoro. Dai colori ai dettagli, ciò che ti ricorderai sarà totalmente diverso. Michel Chion ha scritto un libro fondamentale sul tema, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema: è un’arte che ha regole e meccanismi propri. Spesso si è sottovalutato il ruolo del suono, che è invece parte integrante delle immagini in movimento. Vedere un film muto poteva essere un’esperienza inquietante, perché il silenzio era inquinato dal rumore tipico del proiettore. L’accompagnamento musicale serviva ad addolcire il tutto. Ma sonorizzare un film muto è un processo più profondo: significa rispettare l’opera, a meno che l’intenzione non sia proprio quella di decostruirla con un senso. Mi piace trovare un filo conduttore concettuale su cui costruire l’apparato sonoro e creare una storia nuova.

«Nel mio processo creativo io parto quasi sempre dalle immagini. Ho scoperto che è il mio vincolo iniziale»

Il titolo del tuo EP Imageless del 2020 parla chiaro. Avere a che fare con le immagini lascia libero l’ascoltatore di formare le proprie?
Ho trovato la mia strada quando ho iniziato a lavorare principalmente in relazione con le immagini, per teatro, installazioni, mostre di design e anche per la pubblicità. La musica può nascere dalle immagini e in seguito staccarsi, tagliare il cordone ombelicale e vivere di vita propria. Così torna a creare altre immagini, nuovi immaginari, emozioni, ricordi. E in effetti nell’ascoltare le mie composizioni, c’è chi si è figurato in un paesaggio, in un luogo di campagna, in posti lontani dell’America o in regioni del Sud.

La tua composizione è all’insegna della contaminazione fra generi. Hai mai incontrato delle barriere fra uno e l’altro o si tratta di un processo fluido?
Come tanti musicisti, anch’io sono partito da chitarra, amplificatori e sale prove. Poi ho incontrato l’elettronica e le immagini: questa è stata la mia soglia. Spesso quando si compone in un certo genere, si deve cercare un’estetica del suono precisa. Questo era un blocco enorme per me. Quando ho iniziato a pensare “non ci sono barriere”, è iniziata la mia libertà. Non importa il genere, deve funzionare. Le definizioni vengono a posteriori. Quindi per me è un processo fluido: da quando sono aperto, è come se avessi aperto anche le porte della creatività.

A proposito di soglie, a cosa associ questo concetto?
Per me c’è molta differenza fra soglia e confine. La soglia è la consapevolezza di entrare in un luogo, di stare fra due mondi. Prenderne coscienza è importante, perché si vive quell’attraversamento concettuale o fisico: ci si sente più centrati e in ascolto.

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