Tracce dell’abitare – III – Matthew Herbert

Tracce dell'abitare

III – Sono dunque suono

a cura di Gaia Dallera Ferrario e Lorenzo Palmeri

“Grazie all’invenzione del campionatore
posso descrivere il vero nella cornice dell’immaginario.”

Matthew Herbert

Icona della musica elettronica e dell’arte contemporanea Matthew Herbert ha prodotto tracce per il cinema, per il teatro, per la tv e per videogiochi; ha girato il mondo esibendosi solo o con la sua band di 18 elementi; ha attraversato influenze black, giungendo alla techno – house, sino all’avanguardia più complessa.

Il lavoro di Herbert fa tesoro del patrimonio degli anni ‘80 rivoluzionando il modo di produrre musica elettronica nei ‘90: non esiste per lui una concezione univoca di fondere i suoni ma molteplici modi per trasformare il “rumore” in musica e la musica in politica.
“Penso che tra 100 anni Starbucks brevetterà il suono del loro caffè, ecco perché vedo questo momento come un’età d’oro del suono, in cui siamo liberi di fare qualsiasi cosa. Ed è per questo che sento la responsabilità di andare avanti, di rendere le cose difficili, esplorando anche aree scomode”. Queste parole, estratte da un’intervista rilasciata al The Guardian nel 2015, trovano corrispondenza profonda nella sua produzione che lo ha visto, negli ultimi 20 anni, realizzare una lunga serie di album concettuali, provocatori e inventivi.

Sotto il suo sguardo ogni prodotto o costruzione, pensata e vissuta dall’uomo, non solo è cassa armonica della vita ma ha un proprio suono esercitato attraverso la materia, la struttura, gli impianti, i dispositivi domestici, l’abitare, l’abitante, lo spazio fuori, lo spazio dentro. Da queste premesse nasce l’album “Around the House” (1998), uno dei suoi primi lp.
In questo progetto Herbert rivoluziona e introduce il moderno concetto di house music: esemplare la canzone “In The Kitchen” in cui prepara la colazione dall’inizio alla fine, campionandone il suono e utilizzandolo come base del brano. Il risultato a cui giunge non ha però nulla di casalingo, grazie al sapiente mixaggio di sfumature melodiche, bassi, elementi strumentali e alla voce compressa e irrompente, anche quando sussurrata, di Dani Siciliano.

La sua sperimentazione musicale attraversa lo spazio esteriore così come quello interiore, ed Herbert si spinge, nell’album “Bodily Functions” (2001) a utilizzare i suoni del corpo: dal sangue che scorre nelle vene, allo strofinio della pelle e dei capelli di diverse persone che hanno partecipato volontariamente. Nel successivo “Scale” (2006) torna protagonista lo spazio esterno, in particolare l’annotazione della misura della distanza tra noi e la conseguenza delle nostre azioni. I rumori raccolti sono quelli della città, dalle pompe di benzina, al via vai, al chiudersi di un portone sino ai suoni dello spazio universo. Il risultato è un album con centinaia di campioni a cui si aggiunge un’orchestra di ben 80 elementi.

Più ci si addentra nella comprensione dell’approccio di Herbert alla musica, più ci si rende conto che per lui si tratta di una metafora del modo in cui viviamo e che, sempre più spesso, ha cercato di usarla come strumento critico e politico. Lo ha fatto esplicitamente in “The end of silence” (2013), composto da un campione di cinque secondi di un aereo pro-Gheddafi che ha sganciato una bomba sulla Libia uccidendo tre persone ma anche con azioni al limite del performativo, come nel pezzo “Rich Man’s Prayer” (2008) che parla del settore finanziario. Scritta appena prima del crollo delle borse, finisce con il rumore di 70 persone che tagliano altrettante carte di credito, precedentemente distribuite, all’ingresso del British Museum.

Herbert è stato capace di tradurre musicalmente non solo l’ambiente in cui viviamo, dal più prossimo al più remoto, ma anche il pensiero dell’uomo nella misura in cui esso diviene azione insegnandoci che più si è certi del suono che un gesto produce, più si scopre che non si ascolta abbastanza attentamente.

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