Tracce dell’abitare – I – John Cage

Tracce dell'abitare

I – Il suono, sempre

a cura di Gaia Dallera Ferrario e Lorenzo Palmeri

“…vi è uno spirito in ogni oggetto del mondo,
tutto quello che dobbiamo fare per liberarlo è sfiorare l’oggetto e tirarne fuori il suono. (…)
Dovunque io vada, ascolto sempre gli oggetti.”
Jonn Cage

John Cage si colloca tra i musicisti che hanno più influenzato la cultura compositiva degli anni settanta e sottilmente dell’ultimo cinquantennio. Non è detto che chi conosce il suo pensiero conosca la sua musica, come non è affatto ovvio riconoscere in modo lineare uno nell’altra. La sua formazione è in un certo senso discontinua, da una parte sente di dover approcciare la scuola classica, dall’altra sin da subito si interessa del pensiero progettuale, quello che si situa sopra le diverse discipline. Per questo, mentre studiava composizione a Parigi avvicinandosi in particolare ai percorsi di Stravinskij e Erik Satie, avvicinava anche i mondi dell’architettura, della poesia, della danza, della pittura, della performance teatrale. Dopo i viaggi di studio in Europa torna nella terra natia americana e qui avvicina Henry Cowell e in seguito Arnold Schönberg, di cui diventa allievo per due anni, lavorando con la dodecafonia e altre serie ideate direttamente da lui.

Tra le sue prime composizioni ci sono musiche da balletto e lavori in cui inventa percussioni per orchestra con oggetti quotidiani quali tazzine, scatole di latta e in cui, soprattutto, introduce l’idea di mescolare la musica dal vivo con tracce registrate, utilizzate per la prima volta come veri e propri strumenti musicali. Di li a qualche anno inventerà il tema architettonico del piano preparato, che tanta influenza avrà negli anni seguenti sulla musica sperimentale di tutto il mondo. L’idea consiste nell’introdurre elementi esterni nell’architettura stabilita delle corde del pianoforte, generando suoni “imprecisi” e disturbi “imprevedibili” ogni volta che si suona una certa nota. Su questo pensiero si situa l’idea del suono fuori controllo, imprevisto, simile al gesto naturale, parzialmente o del tutto non gestibile, come quello generato dalla caduta della pioggia, dal corso dell’acqua in un fiume, dal flusso del vento. Una visione che ha fortemente influenzato in modo trasversale certi percorsi dell’architettura spontanea e di certo primitivismo. Va considerato che il pianoforte, in quel momento era (e forse lo è ancora oggi) riconosciuto come strumento principe, intoccabile, simbolo di un certo romanticismo e di una certa visione musicale.

L’idea di manipolarne la natura intrinseca, il DNA strutturale, aveva tutti i crismi di una profonda provocazione, quasi un dileggio della cultura classica. Dal 1937 inizia la collaborazione artistica e il legame umano con Merce Cunningham, da cui nasceranno diverse e interessantissime opere in cui la musica si può ancora definire “espressiva”, cioè guidata da un’intenzione comunicativa emozionale e concettuale. In questo periodo esplora rumori e ritmi, grazie a strumenti inventati ed elettronica, in cui la melodia e l’armonia cominciano a sparire a favore di concetti astratti e matematici. Il suo lavoro si basa fortemente sull’applicazione di serie e proporzioni ritmiche. Ogni brano si definisce matematicamente e geometricamente. Intorno alla metà degli anni quaranta, avviene il suo avvicinamento al Buddismo Zen, di cui oltre che fautore e studioso dell’apparato filosofico, sarà praticante assiduo. Dal concetto di vuoto e spontaneità senza intenzione propri dello Zen, trae una nuova visione della musica e del suo percorso compositivo. Da qui in poi cercherà di raggiungere una completa “naturalità” del gesto musicale, eliminandosi per quanto possibile dal percorso. Come se la musica fosse composta da gocce di pioggia cadute su un piano di legno o metallo, dal frusciare del vento tra le foglie, dal percorso delle automobili in una qualsiasi highway americana, dal miscuglio ingestibile di suoni prodotti da un televisore di sottofondo e un ventilatore nell’ingresso di un motel.

Nei primi anni cinquanta comincia ad utilizzare l’I-Ching (il libro dei mutamenti), per generare scelte compositive estranee alla sua volontà. Cerca di spezzare definitivamente il legame tra la sua “sensibilità” artistica e i suoni che emergono dall’agire compositivo. Qui, definitivamente, abbandona l’idea di musica come suono ordinato. Dopo aver fatto l’esperienza della camera anecoica (in cui viene generata la massima insonorizzazione) postula l’inesistenza del silenzio. Di fatto, esperendo, l’emergere dei suoni interni del suo stesso corpo quali quello del cuore o dello scorrimento del sangue, come capita a chiunque entri in una camera così trattata. Nel 1952 compone 4’33’, un brano “silenzioso”, una pausa di silenzio in cui ascoltare e fare esperienza dei suoni propri dello spazio, dell’ambiente in cui ci si trova. Un brano di fatto sempre nuovo, in cui il silenzio diventa materia musicale, come uno strumento. Eseguito in concerto ha generato in più posti reazioni feroci del pubblico, che si sentiva provocato o preso in giro. Per Cage invece, una vera e propria rivoluzione estetica in cui ogni suono può essere accolto come viene, per scelta dell’ascoltatore, nel flusso dell’esperienza. Interessante la provocazione nella provocazione di Frank Zappa che nel disco “A Chance Operation – the John Cage Tribute” in omaggio all’opera del maestro, propose una cover di 4’33’’. Di fatto, una parentesi silenziosa, nei solchi del vinile.

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