Tracce dell’abitare – V – David Byrne

Tracce dell'abitare

V – How music works

a cura di Gaia Dallera Ferrario e Lorenzo Palmeri

“Uso spesso il computer per comporre,
ma in genere le idee migliori mi vengono mentre cammino per la strada.”
Iannis Xenakis

David Byrne si situa tra le figure musicali più influenti della cosiddetta pop culture. Il suo lavoro abita una delle dimensioni più virtuose e interessanti, quella che attraverso un media apparentemente leggero riesce a muovere e trasportare concetti alti e genericamente estranei a quel mondo. David Byrne, tra i fondatori dei Talking Heads con cui ha scritto alcune delle pagine più significative della musica americana degli ultimi decenni, è artista capace di spaziare tra più settori e discipline. Oltre a scrivere canzoni, ha diretto dei notevolissimi film (“True Stories, su tutti), disegnato oggetti, lanciato progetti culturali, insomma un instancabile globe trotter dell’arte, con la musica al centro.

Ancora oggi è capace di innovare e stupire, imponendo gentilmente la sua visione aliena e straniante. Ultimo esempio il tour del disco “American Utopia” in cui ha scomposto l’architettura del palco, svincolando i musicisti da una posizione fissa e conclamata dal tempo. Un concerto in cui lo spazio è gestito in un continuo movimento tra dimensione “architettonica” e “urbanistica”. Durante l’esecuzione i musicisti “abitano” il palco come una città e, a volte, come un appartamento. Escono e entrano dalla stanza, si incontrano e scontrano all’interno di un perimetro permeabile. In effetti lasciano la scena evocando un esterno sfuggente, che conferisce forza e significato, per contrasto, all’area interna. La soglia misteriosa tra implicito ed esplicito, miracolo dell’abitare e dell’architettura.

Tra le sue molteplici attività, ultimamente si è dedicato alla scrittura di un interessantissimo libro intitolato “How music work”, in cui analizza le chiavi della formazione di un pensiero musicale, degli stili e dei generi, fino alle vie della loro diffusione. In una parte fondante del volume descrive come ogni tipo di musica trovi storicamente un riferimento architettonico e, di più ancora, come ne sia stato in qualche modo generato. L’idea di fondo è che l’architettura, attraverso la gestione dello spazio, dei materiali, dei percorsi, dell’uso della luce e del suono, indichi dei modi specifici di stare nel luogo, generando dei comportamenti che, a loro volta, trovano una specifica espressione musicale.

In “How music work” Byrne propone un esempio che rende del tutto evidente il processo mettendo a confronto la scena alternativa punk rock newyorchese con il canto gregoriano. La musica del CBGB (Country Blue Grass Blues and Other Music For Uplifting Gourmandizers), rock club del Lower East Side di Manhattan, locale simbolo della cultura punk, rock, new wave, non poteva che diventare luogo di culto di questo genere di musica. A causa delle sue dimensioni, della sua funzione, dell’uso che ne facevano le persone e, evidentemente, della sua acustica. Byrne fa notare che uno spazio del genere chiede una musica “rumorosa”, amplificata fino alla distorsione, che viceversa non si sarebbe sentita, ed i musicisti, nel traffico degli avventori, nemmeno notati. Gli stessi componenti delle band che frequentavano il palco del CBGB, dai Ramones ai Talking Heads, raccontano di come la loro musica fosse profondamente influenzata dal luogo.

Al contrario, il canto Gregoriano trova il suo spazio naturale nelle cattedrali. La struttura stessa di questo genere di musica non esisterebbe senza i riverberi lunghi generati dai volumi e dai materiali dei luoghi del culto religioso. Un’idea musicale come quella del Punk non avrebbe mai potuto nascere e svilupparsi in una cattedrale. Un solo colpo di rullante sulla batteria avrebbe generato un’onda sonora travolgente e infine, confusissima, dispersa. Allo stesso modo, il Canto Gregoriano trasportato in un Club, oltre a generare un impressionante shock semantico, finirebbe semplicemente per annullare la sua stessa struttura e sparire nel nulla…

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